Amantea, 6 aprile 2013 - La speranza nel cambiamento
si può presentare davanti agli occhi in un uno dei primi pomeriggi in cui il
sole primaverile colora le gote e sembra
ripagare dei tanti giorni di pioggia e freddo passati, facendosi garante
dell’arrivo della bella stagione con la promessa, quando il sole sarà più
cocente, di un ritorno alla vita con l’arrivo del turismo e dei tanti, distanti
figli di questa terra, che la riabbracceranno dal mare al castello, tornando a
guardarla con gli occhi fanciulli che l’avevano lasciata anche per colpa di un
sistema clientelare che ne ha bloccato da sempre la crescita.
Quella che ci racconta il regista di Campora S.G. Claudio Metallo è in qualche
modo una storia di cicli di vita interrotti dal malaffare e ripresi grazie alla
solidarietà della gente, ma anche di una scelta chiara, quella di restare nella
propria terra ed affrontare i propri aguzzini per creare qualcosa di nuovo, una
rinascita in chiave etica e solidale della propria città.
In questo venerdì pomeriggio di inizio aprile la Guarimba Film Festival ha
organizzato l’incontro col regista camporese per proiettare presso la sala del
Consiglio Comunale il suo docu-corto “Un pagamu – la tassa sulla paura”,
scritto in collaborazione con Nicola Grignani e Miko Meloni, sovvenzionato
dall’Arci Pavia e dall’Osservatorio Antimafia e realizzato per la diffusione
nelle scuole con il compito pedagogico di far vedere sullo schermo esempi di
coraggio tra la gente comune e non soltanto i soliti eventi cruenti legati alla
‘ndrangheta.
‘Un pagamu narra le vicende di alcuni imprenditori di Lamezia Terme che hanno
detto no al pizzo ed hanno formato l’associazione antiracket lametina.
“Chiedere un’estorsione a un piccolo commerciante gli serve come monito per far
capire alla gente e ai miei colleghi commercianti che qui comandano loro” e
“chi paga il pizzo è responsabile del male di questa terra, chi paga il pizzo è
responsabile della forza della ‘ndrangheta” sono le prime, incisive parole che
pervadono la sala, mentre davanti agli occhi scorrono le immagini del lavoro di
ogni giorno presso il gommista Gio’Godino, dove, il 24 ottobre 2006, l’atto
intimidatorio di bruciare una fila di gomme sfociò nell’incendio di cui non
rimase nulla dell’intero edificio in cui avevano sede l’azienda e gli
appartamenti dove viveva la famiglia, racconta Daniele Godino, giovane
imprenditore dalla faccia pulita, primo personaggio narrante di questo piccolo
spaccato di vite.
La sua storia si intreccia con altre, come il presidente dell’antiracket
lametino Armando Caputo che ci spiega la creazione di un gruppo serio di
persone decise a non piegarsi di fronte alle richieste dei clan e di come chi
paga abbia dei vantaggi a livello di mercato, ma che, effettivamente, imbocca
una via che non sa dove lo porterà ed anzi molte volte paga per puro tornaconto
personale. O come Salvatore “Cecè”
Piacente che è tornato, dopo dieci anni, da Bologna a casa per aprire
un’attività e che sottolinea come sia importante essere una rete unita per non
rimanere da soli in questa scelta che comunque mette a rischio anche i propri
familiari e amici.
“Una volta che ti pago tu mi comandi, divento un tuo schiavo, vieni in casa mia
e fai quello che vuoi perché te l’ho permesso io […] però uno deve anche
rischiare perché questo è il nostro ambiente e dobbiamo cercare di migliorarlo”
è il messaggio di Francesco Palmieri, altro imprenditore che non ha voluto
cedere alle molte intimidazioni mafiose.
Presenti nel documentario sono anche due simboli del cambiamento che Lamezia ha
tentato anche a livello istituzionale. Il primo è il sindaco Gianni Speranza
che illustra come sia importante aiutare con i fatti le persone, dalla presenza
del Comune ai processi, allo sgravo fiscale di dieci anni sulle imposte
comunali per chi non si allinea al boss di turno e di come due giorni dopo la
sua elezione, in pieno giorno, abbiano bruciato il portone della sede del Consiglio
Comunale, di cui ha preso le redini dopo due scioglimenti per infiltrazioni
mafiose. L’altro è l’(ex)assessore alla cultura e fondatore dell’antiracket
italiano, Tano Grasso , che disegna con una semplicità eclatante, ma molto
efficace, quanto il pizzo sia una parte marginale e trascurabile dei guadagni
mafiosi e perché sia importante per marcare il territorio: “l’estorsione è il
luogo in cui il mafioso costruisce la sua identità, perché è il momento in cui
un imprenditore, a volte anche grande, riconosce l’autorità mafiosa e compie la
legittimazione”.
Si parla anche dello Spazio Aperto Giovani (poi chiuso per carenza fondi in questi
tempi di crisi), una struttura confiscata alla ‘ndrangheta che, tra la diffidenza
generale della gente al suo esordio, è riuscita a togliere dalle strade tanti
ragazzi grazie ad attività come corsi di fotografia o disegno, sensibilizzando
la cittadinanza e facendo “rete” fra le varie associazioni territoriali.
Ma il punto di luce sul breve affresco di Metallo arriva dalla testimonianza di
Rocco Mangiardi, gestore di un piccolo autoricambi su Via del Progresso, colui
che indica al processo il capoclan Pasquale Giampà, come la persona con cui era
andato a discutere la “tariffa” da pagare, ed i suoi estorsori: lo fa anche grazie all’incoraggiamento datogli
dalla presenza dei membri dell’associazione dei commercianti puliti presenti in
aula e del comune, ma, soprattutto, perché altrimenti avrebbe disatteso tutto ciò
che aveva insegnato ai figli. Il suo gesto ha invece mostrato una via diversa a
una cittadinanza intera, quella del coraggio.
“Mai pensato di scappare. Perché devi scappare di fronte a questo fenomeno?
Scappi tu, ma il fenomeno rimane.” Sono
le parole che concludono il corto, espresse, come in avvio, sempre da Godino,
la cui vicenda di fine e rinascita è l’effettivo collante della storia, guidata
dalla sua voce a più riprese.
La proiezione è stata nobilitata dalla presenza dello stesso Daniele Godino,
che, arrivato nel finale, si è intrattenuto assieme al regista Claudio Metallo
(invitato dalla Guarimba ad essere uno dei giurati del festival estivo) e al
promotore dell’evento Giulio Vita in un dibattito aperto col pubblico,
sostenendo a più riprese la possibilità di eliminare il fenomeno mafioso con un
cambiamento radicale della nostra forma mentis. Sottolineando come sia
necessario smettere di pagare “la tassa sulla paura” per estirpare questa
malerba che ha infestato e infesta tutt’ora ogni cosa su cui mette mano, perché
questo è un momento in cui lo stato ha aiutato molto, azzerando gran parte dei
vertici criminali in varie zone calabresi, tra cui la nostra e la sua. La
realtà dei fatti, ammette con rammarico ma non sfiduciato, continua a far si
che la paura e il giro di affari facciano versare una quota ancora a troppi,
anche dal carcere, e che troppo pochi denuncino i propri taglieggiatori. Il
vero problema è che chi si espone, molte volte, si ritrova da solo nel suo
percorso e viene esautorato dalla scena economica locale. Il primo passo per
curarci è ammettere il nostro male e città come Cosenza e Catanzaro che
dovrebbero tracciare la strada, non hanno formato un’associazione antiracket e,
addirittura, vi si nega l’esistenza del fenomeno. Ma può darsi che i tempi
della società civile non siano ancora maturi ovunque allo stesso modo.
Alla fine del dibattito Daniele si ferma a scambiare due parole con chi si
avvicina e stringe cordialmente le mani. Sua figlia che nel cortometraggio
aveva due anni ed era in braccio alla madre, ora ne ha quattro e scorrazza
intorno alla sala felice, tornandogli puntualmente vicino a cercare una carezza
per tutto il dibattito. Il padre gliela concede in maniera affettuosa, come
ogni padre che vuol bene ai suoi figli. Vorrebbe solo che crescessero in una
Calabria diversa e per questo si impegna nel suo immenso piccolo a cambiare le
cose.
Che il coraggio di questo ragazzo fatto di carne ed ossa, possa essere d’esempio
ai più: è questo l’auspicio. Lui che con la sua storia personale e il suo volto
pulito, è il simbolo di ciò che il sud potrebbe divenire se finisse di essere
fatalista e codardo nei confronti dei disonesti e rinascesse altro.
Daniele Aloe
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